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Benevento, 19-05-2019 08:00 ____
Dopo cinquant'anni, ho ritrovato un mio compagno di liceo. Sono Vincenzo Chiusolo, riesci a ricordarti di me?
Ricordi la nostra abitudine, di buon mattino, protrattasi per i cinque anni di superiori? Certamente: Insieme ci recavamo alla Madonna delle Grazie. Li', dopo una preghiera, ci trovavamo in piazza Roma per entrare in classe rammenta De Lorenzo
Nostro servizio
  

Peppino De Lorenzo, dopo cinquant'anni, ha ritrovato un suo compagno di liceo.
Di qui, prende lo spunto per soffermarsi sulla fede.
Ricorda, in proposito, anche un colloquio sul tema avuto con Umberto Veronesi (foto), qualche anno fa, prima della scomparsa del noto oncologo.
Ecco quanto scrive.
"Gli imprevisti della vita non finiscono mai di stupirci.
Ci sono, infatti, delle situazioni ed incontri che spesso si parano innanzi a noi, d'improvviso, e nei momenti più impensabili. Imprevisti ed inattesi.
Qualche sera fa, avevo concluso il lavoro e, nel silenzio, ritrovando me stesso, ho ripetuto un'abitudine consueta.
Quella che mi porta, prima di rincasare, di fermarmi, magari per mezz'ora, in solitudine, ripercorrendo, serenamente, i miei dubbi, i miei pensieri, le mie illusioni.
Una specie, se vogliamo, di quotidiano esame di coscienza.
La gente che ho incontrato, i pazienti che ho visto, qualche incertezza su talune decisioni assunte dinanzi a patologie singolari.
E' questo per me il momento più bello della giornata. Sono solo, mia moglie ha lasciato lo studio per le quotidiane visite a pazienti allettati, anche la segretaria è andata via.
Così, puntualmente ogni volta, mentre sono assorto in queste valutazioni, da dietro la scrivania, rivolgo lo sguardo al cielo, ove tutto finisce, o, magari, ricomincia.
Mentre ripetevo questo rito serale, definiamolo così, è squillato il cellulare.
Nel rispondere, la voce, dall'altro capo, mi ha, testualmente, detto: "Sono Vincenzo Chiusolo, riesci a ricordarti di me?".
Ho avuto, lo ammetto, un momento di esitazione, anche per una incarnata abitudine professionale che mi ha portato ad associare questo nome a quello di un paziente.
Tuttavia, non poteva essere quest'ultimo, essendo deceduto da tempo.
Così, dopo questa fulminea sovrapposizione di nomi, ho centrato l'obiettivo, da subito, replicando: "Sei il mio vecchio compagno di liceo". E lui: "Sì, non ci vediamo da cinquant'anni, ma non so perché, da tempo, era mio desiderio risentirti e, magari, vederti.
Per rintracciarti, preziosa è stata la disponibilità di un altro compagno di classe, Gennaro De Nigris, che, sino a qualche anno fa, ha fatto parte del comando della Polizia Municipale di Benevento."
Anche se l'emozione da parte di entrambi ha rallentato il nostro colloquio telefonico, vi era, comunque, il desiderio reciproco di dirci quanto più possibile, avendo sciupato tanti anni, presi da una vita frenetica. Lui, da quanto mi ha riferito, è un affermato avvocato nel Lazio ed ha ancora la casa di famiglia a Fragneto.
Ci siamo accordati per un incontro, nel corso della prossima estate.
Ad un tratto, lui mi ha chiesto: "Ricordi la nostra abitudine, di buon mattino, protrattasi per i cinque anni di liceo?". Ed io: "Sì, che la ricordo. Tu arrivavi, gli ho detto, alle 7,30, da Fragneto, con l'autobus di linea, ed io ti aspettavo. Insieme, poi, ci recavamo al santuario della Madonna delle Grazie.
Lì, dopo una preghiera, ci trovavamo, in piazza Roma, per entrare in classe, alle 8.10". Il liceo Scientifico, all'epoca, era lì ubicato.
Quella preghiera mattutina, per noi giovani, era il preludio di una giornata serena ed i nostri discorsi erano tutti improntati ai futuri progetti.
Nel concludere la nostra telefonata, lui mi ha chiesto se quella fede fosse rimasta per me, come allora. Gli ho detto che ne avremmo parlato, a viva voce, in estate.
La notte non ho chiuso occhio. Vincenzo, senza volerlo, mi aveva riportato ad un periodo della vita ricco di speranze, sogni, progetti, arricchito da una fede profonda.
Poi, la vita, la realtà della vita, mi ha trasformato.
Ho rivisto quegli anni in cui l'esistenza appariva simile ad una moneta: Da una parte o dall'altra, testa o croce.
Quel tiepido raggio di sole che in quel tempo, quando la vita stava davanti a me ed all'amico Vincenzo, oggi ritrovato, risvegliava la coscienza, illuminava lo spirito, riscaldava il cuore giovane che, poi, pian piano, almeno nei miei confronti, si è intiepidito.
Le cattiverie incontrate, le pugnalate avute, anche da chi credevo amico, il contatto con la sofferenza di tanta gente, di tanti giovani che ho visto soffrire, mi hanno  portato ad un sofferto distacco.
Invidio spesso chi ha tanta fede e vedo questi esseri umani con una condotta non dissimile a quella di un aeronauta, in una situazione d'imprevedibile periglio.
Come quello, nell'impossibilità di giungere alla meta, si affida speranzoso al paracadute, così il credente, in mancanza di una giustificazione razionale, si confida parimenti alla preghiera.
Spesso porgo a me stesso queste domande, pur consapevole che, in ultimo, non saprò offrire una risposta esauriente.
Mi angoscia, non lo nego, di piombare, un giorno, nell'assenza di tutto.
Non vorrei il protrarsi della vita oltre quella soglia che cancellerebbe i ricordi, gli affetti, le gioie che, nella mia esistenza, comunque, hanno superato i dolori.
Ecco perchè non evito di interrogarmi, continuamente, sull'esistenza di Dio.
Non so se, chiudendo gli occhi, per sempre, si precipiterà nel nulla, oppure saremo ospitati, d'un tratto, in un altro mondo, magari migliore e con minori dolori di quello che abbiamo lasciato.
Così, quella notte, dopo il discorso con Vincenzo, mi è tornato alla mente un lungo colloquio che ebbi con Umberto Veronesi quando lo contattai per chiedergli l'autorizzazione a riportare una sua dichiarazione, proprio sulla fede, in apertura ad uno dei miei ultimi libri. Pubblicazione che lui, poi, non vide poichè si spense a pochi giorni dall'ultimazione della stampa.
Lui mi disse: "Ti sei mai chiesto dov'era Iddio mentre sei milioni di ebrei morivano nei forni di Auschwitz?
Ti sei posto la stessa domanda quando ti sarai trovato a diagnosticare il cancro ad un ragazzo?
Alla mia età, novantenne, dopo averne viste tante, quando mi capita di diagnosticare una neoplasia ad un bambino, la sera, mi chiudo nel mio studio e piango, come mi capitava quando ero giovane.
Poniti, mi disse, questa domanda e, da medico, cerca di darti una risposta. Io non l'ho mai saputa dare".
Queste parole, per me, rappresentarono, mi si creda, il colpo di grazia.
Di qui, la sofferenza che, talvolta, mi prende. Un'angoscia indescrivibile.
Poi, mi fermo, placo l'ansia e dico a me stesso che no, non è, comunque, possibile che la vita finisca così come finisce.
Che significato avrebbero, allora, le nostre aspirazioni oltre le grame vicende del vivere quotidiano?
Così, che senso avrebbe ogni motivo che discriminasse il bene, sempre ed ovunque auspicabile, dal male, sistematicamente, da negligere?
Quale ragione ci sarebbe stata di architettare un mondo così armonico in bellezza e schivo del compromesso, se avesse dovuto servire da semplice scenario al tramonto scolorito di una fragile creatura ingolfata nel dubbio, eppure, profondamente, speranzosa?
Via, il tutto apparirebbe illogico e grottesco, ma soprattutto immensamente grottesco".

comunicato n.122399



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