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Benevento, 13-05-2018 08:49 ____
Ebbi appena il tempo per conoscere i mastrogiorgi, la camicia di forza e l'elettroshock. Arrivai in Ospedale proprio con l'avvio della legge 180
Peppino De Lorenzo a 40 anni dalla introduzione delle legge Basaglia che chiuse i manicomi, ricorda le vicenda del "suo" reparto di Psichiatria che egli descrive logisticamente come un lager. Poi col tempo le cose mutarono...
Nostro servizio
  

Il 13 maggio 1978, oggi sono quarant'anni, il Parlamento approvò una legge sanitaria rimasta storica, la ben nota 180, che, d'un tratto, rivoluzionò l'assistenza ai malati mentali, con la definitiva chiusura dei manicomi.
Non è, sia ben chiaro, nostra intenzione entrare nel merito della stessa, ma, tuttavia, anche qui da noi, presso gli Ospedali Civici Riuniti di allora, il nosocomio di cui in questi giorni tanto si sta parlando, qualcosa si sarebbe dovuto muovere per i malati mentali.
Abbiamo rivolto l'invito al nostro Peppino De Lorenzo di ricordare quei giorni, che, tra l'altro, coincisero con la morte di Aldo Moro, che lui, da giovane medico, visse in prima persona quella storica trasformazione.
Questa volta, per De Lorenzo non è stato necessario aprire un altro cassetto della sua memoria in cui, gelosamente, conserva tappe significative della vita della nostra comunità.
L'odierno suo racconto, infatti, anche se a tratti, è ricavato dal suo ultimo libro "Quarant'anni  tra le sbarre", edito da Realtà Sannita, che comparirà in libreria il prossimo 31 maggio, giorno in cui, alle 18.00, sarà presentato nella Sala Vergineo del Museo del Sannio.
La presentazione sarà affidata a Mario Pedicini ed Enza Nunziato, giornalisti ben noti ed apprezzati, che saranno affiancati, per la parte squisitamente medica, da Enrico De Notaris, dell'Università Federico II di Napoli, una delle figure più note della psichiatria, che giungerà, qui da noi, per l'occasione.
Ecco il racconto di Peppino De Lorenzo che non è, appunto, un'analisi di quella legge, tanto, poi, discussa, ma è uno spaccato di vita di un giovane medico che muoveva i primi passi proprio in quell'ospedale "Rummo" di cui, oggi, tanto si discute.
"Sono trascorsi quarant'anni - scrive De Lorenzo - dall'approvazione della 180, già nota come legge Basaglia che portò alla definitiva chiusura dei manicomi.
E' ben strano, mi sia concesso, che io ricordi quegli anni vissuti in prima persona, oggi che tanto clamore la sanità, qui da noi, sta avendo, con quotidiane prese di posizione da più parti.
Ritengo, per questo, doveroso precisare che, se da un lato le rivendicazioni odierne, finalmente, anche se con ritardo, danno ragione a chi, come me, ha lottato senza tregua, dall'altro mi provocano un particolare stato d'animo.
Sì, uno stato d'animo particolare in quanto, avendo trascorso la mia vita intera tra le mura del "Rummo", quell'Ospedale per me rappresenta un figlio e ben si sa che solo i genitori, per un diritto naturale, hanno il diritto di riprendere, anche con forza se necessario, un figlio, cercando di indurlo a comprendere e correggere gli errori commessi.
Tutti gli altri non hanno questo diritto.
Ecco, questa è la mia attuale conclusione e, quasi, senza neanche rendermi conto, proprio io che, sempre ed in ogni occasione, nel corso di tanti anni, ho cercato di porre in evidenza le manchevolezze, in queste settimane, dentro di me v'è uno stato inconscio che mi spinge a proteggere proprio quell'ospedale attaccato da più parti.
E' vero che sia stato un medico che ha vissuto il passaggio dall'epoca manicomiale all'iniziale avvento degli psicofarmaci.
Arrivai, fresco di laurea, in ospedale proprio in quei giorni del 1978 e mi trovai a vivere l'applicazione della nuova legge che coinvolgeva i sofferenti psichici, anche se allora la divisione di neurologia ed il servizio psichiatrico costituivano un solo reparto.
Pochi giorni prima, il Paese aveva vissuto la barbara uccisione di Aldo Moro che, guarda caso, era stato tra i pochi politici a porre in evidenza le condizioni disumane in cui erano tenuti i malati negli infernali manicomi.
Ebbi appena il tempo per conoscere i mastrogiorgi, la camicia di forza e l'elettroshock.
Al mio arrivo al "Rummo", esisteva il tirocinio della durata di sei mesi, all'epoca remunerato.
Per un semestre, ogni 27 del mese, il medico tirocinante aveva 130.000 lire. Il tirocinio costituiva il primo passo nel mondo ospedaliero.
Quest'ultimo, cui faceva seguito il periodo di volontariato, la cui conclusione era imprevedibile poiché già allora, come oggi, governava la politica.
Comunque, il tirocinio costituiva un titolo, implicava tanti doveri con pochi diritti. Si era l'ultima ruota del carro e si aveva l'obbligo di rispettare gli orari, essere sempre disponibili, assecondare ogni richiesta che provenisse dal primario.
Al "Rummo", l'ambiente psichiatrico, in cui mi venni a trovare, era del tutto particolare. Il reparto, logisticamente, era un lager, copia sbiadita delle altre strutture simili distribuite sul territorio nazionale (le foto sono dell'epoca).
Brande sgangherate, materassi ridotti a brandelli, mura lerce, muffe alle pareti, i sacchetti dell'immondizia tagliati ed usati quali traverse per i pazienti incontinenti.
Ignoravo, allora, cosa mi aspettasse e dicevo a me stesso: "Non è possibile. I vertici dovranno pure intervenire".
Mi convinsi subito, però, che da quella macchina infernale non sarei divenuto uno squallido ingranaggio.
Un giorno pensavo che, raggiunta la laurea, avrei fatto il medico nel senso più alto della parola. Invece, mi trovai in un inferno. In quel tempo, capitò di tutto.
Eventi assurdi e non narrabili che gli infermieri ancora in vita ricordano con terrore.
E, mentre capitava di tutto, con arresti eccellenti, processi, sesso a volontà, il tempo, poi, trascorreva nell'inerzia, con un ritmo lento, un modo di agire che alcuno poteva contribuire a mutare malgrado gli sforzi profusi.
La mia vita d'ospedale, già allora, non si presentava serena per il futuro.
Si ribellava tutto il mio essere dinanzi a tanto degrado umano e da giovane medico mi chiedevo, con insistenza, come fosse possibile che gli amministratori potessero chiudere gli occhi dinanzi a situazioni del genere.
Incamminandomi per la strada della professione avevo progetti ambiziosi, ero pieno di iniziative, carico di speranze e voglia di fare.
Ora mi si imponeva un modello di medicina che dovevo rifiutare per forza di cose.
Ero, comunque, fiducioso che l'arrivo della 180 portasse ad un miglioramento.
Tutto, però, per lunghi anni, rimase come prima.
 Secondo la concezione di Basaglia, il malato mentale non esiste ed è solo il frutto di una invenzione della società.
Quindi, il mio ingresso in ospedale sarebbe dovuto coincidere con un ventilato rinnovamento. Invece, non fu così.
Di qui, iniziarono le mie lotte, una volta entrato assistente effettivo, quale vincitore di concorso, per togliere i malati da quell'inferno ed offrire un'accoglienza dignitosa a chi era costretto al ricovero.
Dal 1978, si giunse ad una vera ristrutturazione nel 2003, ben venticinque anni dopo e solo quando, per punirmi per aver alzato la voce, fui relegato inoperoso in un corridoio, senza neanche una scrivania.
Ritornai al mio posto dopo un anno e mezzo di lotte giudiziarie e fui io ad inaugurare il reparto ristrutturato.
Dopo l'avvento della legge Basaglia si sono sprecati fiumi d'inchiostro.
E', da allora, che ha avuto inizio la lotta di tante mamme, padri, fratelli, sorelle per fronteggiare le vicissitudini di chi, d'improvviso, si trova in casa un familiare psicotico sotto lo stesso tetto.
Si trovano da soli a diventare guerrieri arruolati a vita.
La sanità, nel corso del tempo, così come si sta verificando anche oggi, in precedenza, non aveva mai raggiunto livelli così bassi ed i medici sono ormai sudditi indifesi della politica.
Quindi, tante lotte, difficile a ricordarle tutte, per migliorare e rendere più umana l'assistenza psichiatrica, rischiando sempre l'impallinamento, reale o metaforico.
Malgrado tutto, oggi, l'occasione del quarantesimo anniversario dell'applicazione della 180, fa in modo che eventi, vecchi e nuovi, riaffiorino scomponendosi in un affresco vivissimo nella mia mente.
Ricordo pazienti, i tanti pazienti incontrati, medici, con i quali ho sempre improntato un buon rapporto, infermieri, la sofferenza innaturale dei bambini.
E' stata, comunque, una corsa meravigliosa in cui ho vissuto esperienze indimenticabili.
Ho preso, è vero, talvolta, la vita di petto, senza mai piegarmi alle ingiustizie e cercando la verità sino in fondo, convinto, in ogni circostanza, che, solo così, il nostro Paese potrà cambiare.
Non ho, però, saputo prevedere la violenza con cui mi avrebbero colpito, attaccandomi ad alzo zero. Ho tentato l'impossibile ed ho vissuto rincorrendo questa speranza.
Mi accorgo come, con l'avanzare degli anni, mi manchi molto il passato in quanto, in quest'ultimo, vedo il mio futuro.
Oggi, il tempo, quale filtro di finissima grana, mi fa andare al ricordo, solo e principalmente, delle belle ore trascorse tra le mura del "Rummo".
Cosa non darei per ritornare, magari per una sola sera, a cenare, nelle stanze del vecchio pronto soccorso, con Annio Majatico, il mio amico di sempre, il cui ricordo rimarrà in me sinchè la mia vita duri?
Cosa non darei per ritornare, magari per un attimo, accanto a Renato Russo?
Cosa non darei per riabbracciare i tanti colleghi medici che non ci sono più?
Cosa non darei per ritornare a quel giorno del 1978 quando, una mattina, presso la divisione di medicina generale, retta, allora, da Nazzareno Lanni, incontrai quella giovane dottoressa che, in seguito, mi avrebbe accompagnato per la vita intera?
Fu al capezzale di una delle prime pazienti che avevo ricoverato per una crisi cardiaca che, mentre stavo chiacchierando con i colleghi, entrò lei, vestita con un abito verde chiaro, sorridente.
Un segno del destino.
Che dura, imperterrito, da quarant'anni.
Quindi, il "Rummo", il mio "Rummo" è la mia vita. Allora, curiamolo, abbassiamo i toni, sediamoci ad un tavolo, affrontiamo i problemi, uno per uno.
Solo con la reciproca collaborazione riusciremo a condurre questo mio "figlio" discolo sulla strada del bene e della saggezza al fine che riprenda, come sempre, ad alleviare la quotidiana sofferenza, che coinvolge noi tutti.

 

 

 

comunicato n.112727



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