Portale multimediale d'informazione di Gazzetta di Benevento

 

stampa

letto 5837 volte

Benevento, 17-04-2017 09:09 ____
La messa in scena della narrazione dei momenti cruciali della fede religiosa cristiana di rito cattolico e' tanta parte della nostra identita'
La piu' potente dimostrazione di questa funzione della rappresentazione teatrale di scene ed ambienti religiosi e civili e' quella costituita dai Riti Settennali dell'Assunta
di Antonio De Lucia
  

Nei giorni scorsi, in molte comunità con moltitudini di attori, scenografi e costumisti non professionisti sono state realizzate rappresentazioni popolari sul tema della festività religiosa di rito cattolico della Pasqua.
Avendo come "location" i suggestivi fondali dei centri storici o aree paesaggisticamente pregiate, queste messe in scena nascono sul background sia dei 4 Vangeli, costituenti il pilastro su cui si erge la cattolicità, che delle opere pittoriche di secoli di storia dell'arte, in forme e modi diversi da città in città e da comunità a comunità, seguendo i passaggi di un copione antico, ma comunque scolpito nella mente del popolo e tramandato di generazione in generazione.
"L'Ultima Cena", "Il Bacio di Giuda", "La Flagellazione", "La Crocifissione" sono i  titoli di queste rappresentazioni che non hanno bisogno di ulteriori chiarimenti per chi "vive in questa parte dell'Universo", dove la religione cristiana è preminente ed ha segnato profondamente la storia e la cultura stessa della società civile.
I laici si sono "esibiti", come sempre, parallelamente ai riti religiosi celebrati dai chierici dalla per la Pasqua che, per i cattolici, sono il cuore stesso della propria fede (cioè: "Benedizione degli ulivi", "Lavanda dei piedi", "Processione del Venerdì Santo", eccetera).
Ovviamente, i riti della Chiesa cattolica osservano precisi ed immodificabili canoni liturgici con prestabilite cadenze temporali, distribuite in più giornate; al contrario, le rappresentazioni popolari a tema religioso e soprattutto quelle della Pasqua, per forza di cose e cioè, per così dire, per esigenze di “spettacolo”, sono generalmente condensate in un solo passaggio nel corso del quale si ripercorrono una pluralità di tappe.
Queste messe in scena, negli ultimi tempi almeno, tengono anche conto degli appuntamenti analoghi programmati dalle comunità vicine, al fine di non creare sovrapposizioni e sollecitare l'arrivo nel proprio comune di forestieri.
Insomma, queste rappresentazioni obbediscono anche ad esigenze turistiche, oltre che al bisogno di manifestare la propria fede e a testimoniare la forza, la presenza, la vitalità anche di valori di una comunità.
Sottese alle ricostruzioni popolari della Pasqua, rispetto a quelle del Natale, sono ben più complesse narrazioni di eventi ed un’assai più articolata tessitura drammaturgica e tragica.
Infatti, la Pasqua racchiude in sè elementi che tutti riconoscono come facenti parte del  "teatro", parola, quest'ultima, derivante a pié pari da quella greca "theatron", che vuol dire appunto "spettacolo".
Lo "storytelling" della Natività, in verità, è assai più "statico" (per così dire): il Bambino dorme in una grotta circondato dall'affetto e dall'adorazione di una Mamma un po' speciale e di un papà di professione artigiano, con al massimo l'arrivo in scena di alcuni pastori e di tre personaggi altolocati provenienti da terre assai lontane, guidati da un Cometa.
La "narrazione" della Pasqua cattolica sembra, invece, presa di peso da una tragedia greca.
La rappresentazione porta lo spettatore al cospetto di una storia (un "dramma", altra parola derivante dal greco, "drao", cioè: "agisco"), che necessariamente, affinché il pubblico comprenda il senso letterale e quello simbolico-religioso, si costruisce su: parole, gesti, suoni, movimenti, cambi di scena e musiche (più raramente).
Si ripercorrono, infatti, eventi che, secondo dottrina ed insegnamento cattolici, si svolsero duemila anni or sono in Giudea, al tempo possedimento della Roma "caput mundi", oggi cuore della polveriera-Medio Oriente: in particolare, l'attenzione è incentrata sugli ultimi giorni di vita di un uomo di 33 anni, nato a Betlemme, Gesù di Nazareth, che fin da bambino si era fatto notare per una serie di predicazioni e di miracoli che avevano sfavorevolmente colpito le autorità religiose locali e quelle politico-militari romane che identificano in lui il "Re dei Giudei".
Lo "spettacolo" popolare, di solito, porta in scena quell’uomo che: a) si incammina verso il proprio destino e cioè la città di Gerusalemme tra ali di gente osannante; b) consuma l'ultimo pasto nel corso di una cena in compagnia di un gruppo ristretto di amici-apostoli; c) tradito da uno di questi, tale Giuda Iscariota, in un podere chiamato Getsemani e finito nelle mani delle Autorità religiose, queste l’accusano di essersi paragonato a Dio; d) imputato in un processo davanti a Caifa, Sommo sacerdote, capo del sinedrio ebraico, viene quindi consegnato alle autorità romane nelle persone di Ponzio Pilato ed Erode Antipa; e) agli occhi dei romani forse agitatore politico o  forse soltanto matto, l'uomo infine viene condannato a morte non tanto da Pilato, che “se ne lava le mani”, quanto piuttosto dal popolo improvvisamente diventato a lui ostile; f) inutilmente torturato a frustate, è costretto ad incamminarsi penosamente fino alla cima di un colle chiamato Golgota-Calvario, destinato alle esecuzioni capitali, trasportando sulle spalle due pesanti assi di legno costituenti, secondo l'uso romano, lo strumento di morte; g) infatti, su quei due legni, disposti a croce, viene infine letteralmente inchiodato per mani e piedi per acuirne, se mai fosse possibile, le sofferenze e, quindi, tenuto conto che era un "Re", qualcuno gli pone sul capo una corona, sì, ma di spine. Il condannato, infine, dopo aver chiesto a Dio perché mai lo abbia abbandonato, dissanguato, esala l'ultimo respiro: sepolto, quello stesso uomo risorge ed ascende al cielo. Insomma: se la sola descrizione delle scene del “plot” è impegnativa, figurarsi la loro concreta rappresentazione (in quanto alla logistica, al "trovarobe", al cambio di scene, ...).
Ogni comunità del Mezzogiorno ed italiana si confronta con questa tradizione bi-millenaria, che, in sostanza, si incentra sul tema della speranza e della ri-nascita, costituenti, peraltro, un mistero, presente da sempre anche in altri contesti religiosi e culturali, al centro della riflessione (si pensi, ad esempio, a cosa abbia significato per la civiltà egizia l’oltretomba).
Cristo, Figlio di Dio, risorge dalla morte per redimere i nostri peccati: questo, per il credo della Santa Romana Chiesa, vuol dire che un comune mortale, un qualunque individuo, se abbraccia l'insegnamento di Gesù, può ri-sorgere dai propri peccati, ri-nascendo ad una nuova vita.
Questo concetto, presente, come detto, in misura e con accenti diversi anche in altri contesti di fede, implica la necessità di incamminarsi per una strada, avviando un percorso di redenzione: ed è proprio questo che simboleggiano le rappresentazioni della tradizione pasquale cristiana, parte integrante della vita delle comunità locali.
Ora, come accade anche per altre ricorrenze, in particolare per il Carnevale, ciascuna ambito locale rivede un po’ a suo modo, secondo la storia locale, gli insediamenti, la stessa posizione geografica, e così via, il nucleo centrale della tradizione religiosa comune: per esempio, nel capoluogo sannita, l'11 aprile scorso (cioé il martedì prima della Pasqua) un centinaio di attori ha messo in scena il percorso delle ultime ore di Cristo, partendo dal Duomo e dipanandolo lungo le vestigia della città romana (nella foto un momento di questa rappresentazione), per concludersi all’Arco del Sacramento dove, accanto ai ruderi, è stata pochi anni or sono costruita un'arena proprio per rappresentazioni teatrali all'aperto.
Altrove non è stato sottolineato il contesto romano, semplicemente perché lo stesso non c'é o non c'è mai stato. In altre località ancora, sullo stesso "plot", vivono letture e consuetudini diverse o quanto meno più ricche di elementi originali: spesso infatti si insiste su manifestazioni pubbliche di pentimento dei peccati con l’intervento di cortei di flagellanti ed Incappucciati. 
Una lettura innovativa, ma ormai già risalente a più di 40 anni or sono, è stata quella dell’opera rock di Tim Rice ed Andrew Lloyd Webber dal titolo: "Jesus Christ Superstar".
La straordinaria colonna sonora, da cui fu tratto anche il film omonimo del 1973 diretto da Norman Jewison (pellicola "sdoganata" nelle Sale cinematografiche, come si ricorderà, da donna Vittoria Leone, la moglie dell'allora presidente della Repubblica), è ormai anch’essa diventata in alcuni, ristretti ambiti territoriali parte del patrimonio popolare, sia pure con notevoli tagli (per questione di costi) rispetto al canovaccio originale.
Al centro di questo "musical", è centrale una domanda che tormenta Giuda, l'apostolo che, disapprovando quella che lui riteneva la piega "politico-rivoluzionaria" assunta dalla predicazione di Cristo e temendo la repressione dei Romani, lo tradì.
L'uomo del Getsemani, secondo Rice e Lloyd Webber, proprio nel brano che dà il titolo all'opera, chiede a Cristo (dopo essersi impiccato): "Perché, ti sei lasciato sfuggire le cose di mano in questo modo?
Avresti gestito meglio le cose se le avessi programmate.
Ora, perché hai scelto un tempo così arretrato e una terra così strana?
Se tu fossi venuto oggi avresti potuto raggiungere un'intera nazione: Israele nel 4 a.C. non aveva mezzi di comunicazione di massa".
Al di là di tale questione proposta da questa produzione culturale americana di elevato e struggente tono e conio spirituale, il significato della tradizionale rappresentazione "teatrale" popolare della Pasqua è oggetto di valutazione da parte degli studiosi di antropologia culturale.
E' pacifico che i partecipanti alle ricostruzioni, cioè quegli attori che si lasciano "frustrare", si mettono in posa mentre cenano, reclamano l'esecuzione di uccidere quel tizio che si proclama "Re dei Giudei", ebbene intendono manifestare la propria fede religiosa nel "portare in scena" gli elementi più difficilmente comprensibili, rispetto alla logica comune, di tutta la narrazione cristiana; ma è altrettanto pacifico che questa testimonianza religiosa costituisca anche parte del più complessivo patrimonio e bagaglio culturale popolare italiano, che quindi ingloba la fede religiosa, ma si estende anche alla dimensione di valori laici e civili da quella stessa derivanti.
In altre parole: le rappresentazioni contribuiscono a riportare alla attenzione generale i connotati e le fondamenta dell'identità locale.
Quelle messe in scena sono un vero e proprio tassello distintivo della comunità di appartenenza, un marchio di origine, il segno distintivo di una entità che nell’universo mondo non è eguale alle altre, allo stesso modo della particolare conformazione del monte che sovrasta il proprio paesino e non si ritrova da nessuna altra parte.
In un gruppo di uomini e donne che vivono in un ben preciso posto, il cui dna culturale è frutto di una storia e di eventi particolari e nel cui loro presente sono vivi e forti i segni di un passato più o meno lontano, ebbene proprio qui, in queste tradizioni, si ritrovano le tracce di un loro essere "altro" rispetto al vicino all’altra parte della collina.
E' una "catena" in quella "doppia elica" che ogni individuo, come singolo e come gruppo, si porta dentro di sé e che lega le generazioni future a quelle presenti e a quelle antiche.
Sebbene il tempo passi e le insidie della globalizzazione, che aggrediscono le differenze e le distinzioni tra le genti, si fanno sempre più invasive ed intolleranti, c'è ancora un "filo rosso" importante che segna, come sempre, il cammino di una comunità e non ne devia il tracciato, nonostante gli attacchi che riceve.
Quelle forme di teatro popolare e folkloristico  sono in realtà enorme macchine di tessitura che riallacciano “nel” e “sul” territorio i fili di una storia passata che vuole essere un futuro vivendo in un presente che non vuole essere soffocato.
Perché mai dovrebbe accettare, quella storia, di sparire?
Essa ha segnato un civiltà e ha tutto il diritto di esserci ancora e sempre.
A dispetto persino della desertificazione sociale, cioè della perdita di abitanti.
Anzi, la rappresentazione teatrale vuole costituire una sorta di antidoto al progressivo processo di sgretolamento e di rarefazione antropica delle comunità nei nostri piccoli centri.
Proprio la messa in scena della narrazione dei momenti cruciali della fede religiosa cristiana di rito cattolico, che è tanta parte dell'identità culturale italiana, costituisce il momento in cui si rafforza il legame e la storia dei territori locali.
Probabilmente, la più potente dimostrazione di questa funzione della rappresentazione teatrale di scene ed ambienti religiosi e civili, che è insieme catartica per il suo sano senso di appartenenza ed orgogliosamente identitaria di una comunità, è, in verità, quella costituita dai Riti Settennali dell'Assunta di Guardia Sanframondi.
Nella cittadina che si affaccia sulla Valle Telesina all'ombra del Castello normanno, è quasi l'intera cittadinanza che, a ridosso di Ferragosto, mette in scena per più giornate un colossale evento, costituito da una pluralità di rappresentazioni (detti “Misteri”) su momenti della vita della Chiesa.
Un gruppetto di attori, in pose fisse (come accade nei fotoromanzi), ma muovendosi in processione all'interno del centro storico, mette in scena storie della Chiesa o di uomini di Chiesa (l'arcivescovo Oscar Romero) o di uomini che hanno dato prove eccelse di amore verso il prossimo e di solidarietà (il sottufficiale dei Carabinieri Salvo D'Acquisto).
Agli attori si accompagnano nella processione i Cori, e quindi i Flagellanti e (ma solo l'ultimo giorno) i Battenti.
I Riti ritornano in questo 2017 e come sempre, gli occhi non solo degli italiani, ma di studiosi, giornalisti e turisti di tutto il mondo saranno puntati su questa città che è determinata nel riportare in un palcoscenico costituito da tutto il centro storico una narrazione di straordinaria complessità scenica, di formidabili contenuti emotivi e religiosi, di ri-affermazione della propria unicità ed identità storico-religiosa, pur in presenza di un'articolazione interna e di "competizione" tra i suoi Rioni storici.
Per un cittadino di Guardia Sanframondi (quale che sia il proprio Rione) è un atto di fede religiosa, ma anche un dovere sociale e civile partecipare a questi Riti.
Si tenga presente che talvolta, nel corso dei secoli, i Riti sono stati organizzati anche a scadenze temporali più ravvicinate in occasioni particolari: carestie, calamità naturali, cioé appunto quando la collettività locale è stata minacciata da fenomeni imprevedibili ed occorreva "fare qualcosa" per farla vivere ancora.
Oggi, in questo Terzo Millennio, la calamità in realtà è data dal pericolo di estinzione fisica, culturale ed identitaria sulla spinta del processo di omologazione globale.
Il popolo di Guardia sopporta un impegno straordinario, faticosissimo, cui si aggiunge anche l'atto di volontaria manifestazione di pentimento dei propri peccati che è quella praticata da chi si punisce pubblicamente percuotendosi le spalle con una frusta o colpendosi con 33 spillini il petto.
Una ricostruzione "teatrale" che è anche una ricostruzione della propria vita e di quella della propria città.

comunicato n.101431



Società Editoriale "Maloeis" - Gazzetta di Benevento - via Erik Mutarelli, 28 - 82100 Benevento - tel. e fax 0824 40100
email info@gazzettabenevento.it - partita Iva 01051510624
Pagine visitate 401016350 / Informativa Privacy